Seguici e condividi

Submit to FacebookSubmit to TwitterSubmit to LinkedIn

Paolo servo e apostolo di Gesù Cristo

Paolo evangelizzò come inviato del Signore Gesù Cristo. L'evangelizzazione era un compito che gli era stato affidato specificatamente. «Cristo mi ha mandato... a evangelizzare» (1Co. 1:17).

Ora notate come Egli considerava sè stesso in virtù di questo mandato. In primo luogo si vedeva come amministratore di Cristo. «Così ci stimi ognuno, scriveva ai Corinzi, «come dei ministri di Cristo, e degli amministratori dei misteri di Dio» (1Co. 4:1). «Una dispensazione del vangelo (cioè, commissione di dispensarlo: 'amministrazione', che m'è affidata» (1Co. 9:17). Paolo si riteneva uno schiavo in catene elevato ad una posizione di grande stima, nella quale veniva sempre a trovarsi un amministratore di famiglia, ai tempi del Nuovo Testamento; egli era stato «approvato da Dio che gli aveva affidato l'evangelo» (Ga. 2:15,16; 1Te. 2:4; cfr. 1Ti 1:11 ss; Tt. 1:3) ed ora aveva la responsabilità di essere fedele alla consegna, come dev'esserlo un bravo amministratore (1Co. 4:2), avendo custodia della preziosa verità che gli era stata affidata (della stessa cosa incaricherà Timoteo (1Ti. 6:20; 2Ti. 1:13 ss), distribuendola e dispensandola secondo le istruzioni del Suo Maestro. Il fatto di aver ricevuto questo incarico, voleva dire, come scriveva ai Corinzi, che «necessità m'è imposta; e guai a me se non evangelizzo!» (1Co. 9:16; At. 20:20-26 ss; 2Co. 5:10 ss; Ez. 3:16 ss; 23:7 ss). La figura dell'amministratore sottolinea pertanto la responsabilità che Paolo aveva di evangelizzare.

E ancora, l'apostolo si considerava l'araldo di Cristo. Quando parla di sé come «banditore costitutivo» del vangelo'', il termine che adopera è Kéryx, che significa araldo, una persona che fa dei pubblici annunci per conto di un altro. Quando dichiara, «noi predichiamo Cristo crocifisso» (1Co. 1:23), il verbo usato è Kéryssò, che indica l'attività affidata all'araldo, cioè quella di divulgare dappertutto quanto gli è stato ordinato di far conoscere. Quando parla della «mia predicazione», della «nostra predicazione», e stabilisce che, non avendo il mondo conosciuto Dio con la propria sapienza, «è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione» (1Co. 2:4; 15:14; 1:21), il termine greco è Kérygma, che non indica l'atto di annunciare, ma la cosa annunciata, la proclamazione stessa, il messaggio predicato. Paolo, nel valutare sè stesso, non si reputava filosofo o moralista, né uno dei sapienti di questo mondo, ma semplicemente l'araldo di Cristo. Il suo regale maestro gli aveva dato un messaggio da proclamare; perciò il suo solo compito era di consegnare questo messaggio, con fedeltà sollecita e precisa, nulla aggiungendo, nulla alterando, nulla omettendo. Doveva diffonderlo, non come un'altra brillante idea dell'uomo che ha bisogno di essere abbellita coi cosmetici ed i tacchi alti della cultura alla moda per richiamare l'attenzione della gente, ma come una parola che viene da Dio, pronunciata nel nome di Cristo, che porta in sè l'autorità di Cristo, che è necessario sia autenticata in chi l'ascolta dalla potenza persuasiva dello Spirito di Cristo. «Quando venni a voi», Paolo ricorda ai Corinzi «venni... ad annunciarvi la testimonianza di Dio». Paolo sta dicendo: venni, non per presentarvi le mie idee su un qualche argomento, ma soltanto a offrirvi il messaggio di Dio. Perciò «mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo, e lui crocifisso» perché era proprio questo che Dio mi aveva mandato a dirvi. «E la mia parola e la mia predicazione (Kérigma) non sono consistite in discorsi persuasivi di sapienza umana, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza, affinchè la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Co. 2:1-5). Quindi la figura dell'araldo mette in evidenza l'autenticità del vangelo di Paolo.

In terzo luogo, Paolo si considerava ambasciatore di Cristo. Cos'è un ambasciatore? Una persona autorizzata a rappresentare il sovrano. Non parla a nome suo, ma per conto del capo di governo di cui l'ambasciatore è deputato: Ho il dovere e la responsabilità d'interpretare il pensiero del suo capo con fedeltà, presso coloro ai quali è inviato. Paolo adopera quest'immagine due volte e sempre in relazione al suo lavoro d'evangelista. Pregate per me, scriveva dal carcere, «acciocché mi sia dato di parlare apertamente per far conoscere con franchezza il mistero dell'evangelo, per il quale io sono ambasciatore in catene: affinchè io l'annunzi francamente, come convien ch'io ne parli». Dio, egli scriveva ancora, «ha posta in noi la parola della riconciliazione. Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio» (Ef. 6:19 ss; 2Co. 5:19 ss). Paolo si considerava ambasciatore perché sapeva che quando egli proclamava i fatti e le promesse del vangelo ed esortava i peccatori ad accettare la riconciliazione avvenuta sul Calvario, era il messaggio di Cristo al mondo che lui stava predicando. Così la figura dell'ambasciatore mette a fuoco l'autorità che aveva Paolo come rappresentante del suo Signore.

Allora l'apostolo, nell'evangelizzazione, agiva consapevolmente come schiavo e amministratore, portavoce e araldo, messaggero e ambasciatore del Signore Gesù Cristo. Ne consegue, da un lato la sua ferma franchezza e l'incrollabile senso d'autorità di fronte al ridicolo e all'indifferenza; dall'altro, il suo intransigente rifiuto di modificare il messaggio per adeguarsi alle circostanze. Naturalmente le due cose erano collegate poiché Paolo poteva esser certo di parlare con l'autorità di Cristo fintanto che restava fedele ai patti del suo mandato e non diceva di più o di meno di quello che gli era dato d'annunciare (Ga. 1:8 ss). Ma mentre presentava il vangelo che Cristo gli aveva affidato, parlava in qualità di rappresentante incaricato di Cristo, perciò poteva predicare con autorità e reclamare il diritto d'esser ascoltato.

Ma il mandato di divulgare il vangelo e di fare discepoli non fu mai limitato ai soli apostoli. E al presente non è neppure limitato ai ministri della Chiesa. E' un compito che spetta a tutta la Chiesa collettivamente e quindi a ciascun credente individualmente. Tutto il popolo di Dio è mandato a fare quello che fecero i Filippesi, ed a «risplendere come luminari nel mondo; tenendo alta la parola della vita» (Fl. 2:15 ss). Perciò, ogni cristiano ha l'obbligo, datogli da Dio, di render noto il vangelo di Cristo. Ogni credente che proclama il messaggio evangelico ad un suo simile lo fa in quanto ambasciatore e rappresentante di Cristo, secondo i termini dell'incarico che Dio gli ha affidato. Tale è l'autorità, e tale è la responsabilità della Chiesa e del cristiano nell'evangelizzazione.

J. I. Packer