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II primato di Cristo

Il Signore Gesù è presentato come Colui che ha il primato nella creazione e nella redenzione (Cl. 1:15-20). La creazione e la redenzione sono indissolubilmente legati alla Sua signoria.

La libertà umana non può prescindere da essa. Essa non può essere pensata in astratto, ma può essere responsabilmente esercitata solo nella cornice della rivelazione e nella sottomissione a Cristo in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.

(a) Nella creazione

"Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio, primogenito d'ogni creatura, poiché‚ in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le invisibili, troni dominazioni, principati, potestà; tutto è stato creato per mezzo di lui ed in vista di lui; ed egli esiste prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui" (15-17). 

(b) Nella redenzione

"Ed egli è il capo del corpo, cioè della chiesa. Egli è il principio, il primogenito dai morti onde in ogni cosa abbia il primato. Poiché in lui si compiacque il Padre di far abitare tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare a lui tutte le cose avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso per mezzo di lui tanto le cose sulla terra quanto quelle che sono nei cieli" (18-20).

Un testo del genere sottolinea come con la redenzione si abbia una nuova Genesi e come la Chiesa rappresenti ormai la nuova umanità (cfr. Cl. 3:10,11). Il Signore Gesù è pienamente sufficiente sia al mondo creato sia a quello redento.

Il Signore Gesù è risorto per avere preminenza su tutta la realtà (Cl. 1:13-18). Ogni pensiero deve dunque essere tratto all'ubbidienza di Cristo (2Co. 10:5) in cui tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti (Cl. 2:3).

Gesù è presentato come "il principe dei re della terra" (Ap. 1:5) e si può quindi capire come egli possa affermare di possedere ogni autorità in cielo ed in terra (Mt. 28:18-20).

Poiché‚ Cristo è Signore nel campo della creazione come in quello della redenzione, i cristiani possono far sì che la loro identità cristiana abbia rilevanza sul piano civile senza per questo essere distorta da tale impegno. Si deve dunque riconoscere la legittimità di una comunicazione tra l'ambito della redenzione e quello della creazione. Il primato di Cristo implica la sua piena sufficienza per le esigenze del mondo creato.

II.23 L'universalità del diritto di Dio. Un altro tema molto presente nella Scrittura è quello dell'universalità del diritto di Dio. Poiché‚ il mondo è il mondo di Dio, non v'è nulla che possa essere considerato estraneo a lui o possa comunque ritenersi autonomo nei suoi confronti. Accanto a Dio non vi sono altri signori e questo concerne sia il mondo celeste sia quello terrestre. Ogni realtà ha un'esistenza dipendente.

La distinzione tra Chiesa e Stato che l'AT e il NT insegnano non implica mai l'estraneità dello stato alla legge di Dio. La vita è fondamentalmente una e possiede un unico centro. Tale centro è al di fuori di essa.

Questa prospettiva costituisce la premessa indispensabile per l'intelligibilità del reale. La realtà creata non ha criteri d'autorità diversi, ma uno solo. Siccome la ragione procede per analogia non si possono avere criteri diversi o contrapposti, perché in tal caso la stessa realtà non potrebbe più essere compresa. Invece, proprio perché Dio è l'unico Signore, l'uomo può osservare la realtà creata e comprenderla in quanto è riconducibile ad un campo unitario.

Ciò ha importanti conseguenze per quanto concerne la legge ed il giudizio di Dio. Dio si presenta come il "giudice delle nazioni" (Is. 2:4). Se i re possono regnare ed emettere giusti decreti, volenti o nolenti lo devono a Dio (Pr. 8:15,16). Nessuna nazione ha dunque il diritto di considerarsi estranea alla volontà di Dio. Non v'è stato al mondo che possa legittimamente considerarsi fuori dal dominio di Dio e possa quindi sottrarsi alla sua legge ed al suo giudizio (Sl. 22; Pr. 8:15,16; Fl. 2).

Le nazioni sono chiamate a riconoscere Dio e a osservare i suoi principi di giustizia (Le. 18:24-30; Pr. 14:34; 16:12; Sl. 110:5). I profeti esortano le nazioni a non allontanarsi dal diritto di Dio. Così un re pagano come Artaserse è sollecitato a applicare la Sua legge (Ed. 7:11-28). Tutto questo permette a Paolo d'affermare che tutto sarà giudicato dalla legge divina (Ro. 1-3).

La Sua legge e il Suo giudizio sono applicabili, perché il mondo di Dio non può essere diviso e sottratto al diritto di Dio. Se si suppone una diversa base per la conoscenza, si deve anche dedurre un diverso criterio per giudicare, ma la Scrittura non lascia intendere nulla di simile.

A questo punto può essere utile distinguere crimine e peccato. Il crimine è ciò che offende il prossimo, il peccato, ciò che offende Dio. Davanti a Dio ogni crimine è peccato, ma non ogni peccato è un crimine. Ciò significa che non vi deve essere un appiattimento tra i due. Non osservare l'anno sabatico ai tempi di Mosè‚ era un peccato, ma non un crimine da punire (Nu. 25:1-). In diversi casi Dio interveniva direttamente per punire i peccati (Le. 10:2). Lo stato è abilitato a punire i crimini perché‚ essi riguardano le relazioni tra gli uomini, mentre Dio può anche punire il peccato. I peccati contro Dio sono punibili solo da lui (14).  

II.24 La distinzione delle istituzioni. La rivelazione biblica induce a circoscrivere l'autorità e le competenze dei vari istituti. Bisogna che ciascuno limiti la propria azione all'interno di certe frontiere e che non ne scavalchi i limiti. Se non fosse così non si capirebbe il giudizio radicale che colpisce persone come Saul e Uzzia per citare solo due esempi. Saul che invade il campo di competenza di Samuele commette un atto di inaudita gravità. I re non sono nè giudici, nè sacerdoti e ciascuno deve guardarsi dall'invadere il terreno altrui.

A livello strutturale si deve riconoscere l'ordine in cui Dio ha creato il mondo. Nessuna istituzione deve prendere il posto che compete alle altre. La scuola, la società, lo stato, la chiesa, la famiglia, ecc. non devono sovrapporsi le une alle altre. Dio ha creato tali strutture perché‚ si reggano in modo indipendente. La società è come un giardino con diverse piante e nessuna di esse dovrebbe essere un parassita che sfrutta la vita dell'altra. Ciascuna deve avere il proprio terreno.

Tutti gli uomini vivono nel contesto di relazioni ordinate da Dio e ogni attività umana ha un suo proprio ambito per consentire all'uomo di realizzarsi in quello specifico contesto. La chiesa non deve per esempio definirsi in base al riconoscimento dello stato, ma solo in forza della propria confessione di fede. Come tale essa deve governarsi in modo indipendente dallo stato in cui esiste. Lo stato ha uno scopo specifico e limitato. Esso è circoscritto dalle altre realtà e non deve pretendere di trovare in sé stesso la propria autorità perché allora si porrebbe come realtà assoluta. All'inizio non v'è invece nè la chiesa, nè lo stato, ma Dio.

I magistrati sono "ministri di Dio" (Ro. 13:4) e in quanto tali non rispondono solo agli uomini del loro operato, ma a Dio stesso. Il magistrato non possiede un'autorità intrinseca, perché l'autorità non è un dato naturale. L'autorità proviene solo da Dio e solo Lui può delegare. Gesù dice a Pilato "Tu non avresti alcun potere su me se non ti fosse dato dall'alto" (Gv. 19:11). Ciò significa che nessuno può avanzare diritti su altri a partire dai propri convincimenti. Quando questo avviene, quando lo stato si considera autonomo, diventa qualcosa di bestiale (Ap. 13). Lo stato deve semplicemente favorire il coordinamento delle diverse realtà esistenti al proprio interno e non dominarle.

Vi è un dominio di competenza del sovrano e un altro che non è di sua competenza. Cesare ha a che fare col denaro e le tasse, ma non deve andare al di là di questi limiti. Il Signore Gesù non diede le chiavi del regno a Cesare, nè la spada a Pietro. Egli agiva sulla base di una distinzione. Allo stato non bisogna dunque riconoscere un'autorità che non gli compete e ogni illecita pretesa di potere andrebbe stigmatizzata.

È d'altro lato evidente come non si possa limitare il messaggio cristiano a una sola sfera, ma come esso debba incidere su tutte le strutture. L'ordine di Dio di sottomettere la terra è ancora valido e a causa della redenzione non è una semplice utopia. L'uomo nel peccato ha perso il diritto e la capacità di dominare la realtà, ma l'uomo in Cristo ha il dovere di ubbidire all'ordine di Dio. Egli non può abbandonare le varie istituzioni a loro stesse senza venir meno al comandamento di Dio. Egli deve dunque lavorare per la loro trasformazione. Non deve fuggire dalle istituzioni per raggiungere Dio, ma lavorare perché esse siano cambiate e consacrate a Dio.

II.25 I criteri operativi. Per evitare che le affermazioni che precedono si riducano a qualcosa d'astratto e sfuggente bisogna fare un passo di più. Bisogna dunque tratteggiare quei criteri operativi che nella Scrittura sembrano rappresentare dei guardrail generali.

Il diritto di Dio è prima di tutto legato alla verità. I comandamenti di Dio sono veri non solo perché coincidono con la realtà, ma anche perché vale la pena vivere in conformità a essi nella propria vita. La verità non è semplicemente un concetto, ma ciò che si deve fare, ciò in cui bisogna camminare (Sl. 26:3; 86:11). Per essere veri bisogna essere interamente affidabili. Una comunicazione volta a ottenere risultati contro la verità è inaccettabile così come è inaccettabile la calunnia e la distorsione dei fatti.

Strettamente unito al criterio della verità c'è quello della solidarietà. Il misero e l'orfano, l'afflitto e il povero, sono i beneficiari dell'interesse divino. In questo contesto si deve capire l'opzione di Dio per i deboli e gli oppressi. Non si tratta di privilegiare i poveri perché sarebbero migliori o più santi dei ricchi. La povertà non è un mezzo di grazia, nè una via preferenziale per essa. Dio non difende il debole sulla base di un giudizio di carattere spirituale, ma nell'ottica del servizio. Lo stato è chiamato a rendere un simile servizio in nome della giustizia pubblica e della solidarietà. L'interesse di Dio riguarda l'equità e la solidarietà che devono caratterizzare le relazioni umane.

Da notare comunque che poiché ciò che conta è la giustizia di Dio non si tratta di privilegiare il povero rispetto al benestante. Levitico 19:15 insegna che non si deve commettere iniquità nel giudicare, per cui "non avrai riguardo alla persona del povero, nè tributerai speciale onore alla persona del potente, ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia". L'autorità è un canale per l'affermazione delle norme divine di giustizia nelle relazioni sociali. Quando essa rimane fedele a tale ruolo costituisce una protezione dagli attacchi delle forze del male.

Il terzo criterio operativo che si può evocare è quello della giustizia. Dio vuole la giustizia. La Scrittura risuona del messaggio del diritto e della giustizia. Si tratta di due imperativi paralleli (Am. 5:24). Essi esprimono il cuore della buona notizia e non devono essere separati come se appartenessero a mondi diversi. La Scrittura insegna che "giustizia e diritto sono la base" del trono di Dio (Sl. 89:14).

La Scrittura insiste sul fatto che Dio è profondamente coinvolto nella giustizia che viene praticata tra gli uomini (Sl. 82:1-4). Simbolicamente i giudici e i magistrati sono proprio definiti col termine di "dèi"! E questo dà un'idea della responsabilità e dello stretto collegamento con il Giudice di tutta la terra.

Verità, solidarietà (clemenza) e giustizia sono associati all'avanzare trionfante di Dio sul suo carro. "Avanza maestoso sul carro per la causa della verità, della clemenza e della giustizia" (Sl. 45:4). L'associazione dei tre temi fa pensare alla necessità di un equilibrio tra loro. Verità, solidarietà e giustizia fanno infatti parte di un trinomio e devono essere collegate tra loro. È noto come ideali di verità possano allontanare la giustizia e come la giustizia possa vanificare la solidarietà. Grazie a Colui che avanza maestoso sul carro si possono coniugare.